Neuroscienze alla Biblioteca delle Oblate

Ingresso della Biblioteca delle Oblate a Firenze
La Biblioteca delle Oblate, a due passi da Piazza del Duomo, a Firenze è stata sede dell’ evento di divulgazione scientifica Un Pomeriggio Con Le Neuroscienze
Programma e relatori di Un Pomeriggio con le Neuroscienze
Programma e relatori di Un Pomeriggio con le Neuroscienze

Un Pomeriggio con le Neuroscienze

Un’esperienza di divulgazione scientifica alla Biblioteca delle Oblate, Firenze

7 dicembre 2024  ore 14 -18.45

Perché Un Pomeriggio con le Neuroscienze?

Le Neuroscienze stanno facendo progressi importanti. Basti pensare al fatto che esse  sono coinvolte negli sviluppi che hanno portato alla Intelligenza Artificiale (le reti neurali). Per non parlare poi della robotica e delle interfacce cervello (mente?) – macchine. Sopratutto sono importanti e conosciute per i progressi che portano nella diagnosi e nella cura delle malattie del sistema nervoso.

Insieme a filosofia, medicina e biologia, le Neuroscienze sono in primo piano nelle indagini di frontiera che riguardano gli stretti legami tra corpo e coscienza, l’origine della vita, l’evoluzione e lo sviluppo individuale, compreso lo sviluppo del sistema nervoso centrale, e infine il rapporto tra evoluzione naturale e storia delle culture.

Il nostro evento del 7 dicembre nella splendida cornice della biblioteca delle Oblate, nel Centro di Firenze,  ha preso origine da queste convinzioni e si è proposto lo scopo di lanciare una idea, quella della divulgazione delle Neuroscienze in contesti pubblici e popolari, al di fuori (ma in stretta collaborazione) con la scienza delle Accademie e dei grandi complessi industriali.  E’ stata una prima occasione per capire se e come fare questo tipo “pubblico” di divulgazione e perché è importante.

Nonostante che le conquiste delle Neuroscienze abbiano un grande impatto sulla vita delle persone, attraverso i progressi nella diagnosi e cura delle malattie, e sull’immaginario collettivo, per i temi di cui trattano, sono poco conosciute  dal grande pubblico.  

La loro divulgazione avviene oggi soprattutto lungo due direttrici: o arriva filtrata (a maglie strette) dalle accademie o dalle aziende o è scatenata in maniera selvaggia su internet. 

Sui media della divulgazione istantanea prevale il sensazionalismo. Il risultato di una ricerca  arriva ai giornali e al grande pubblico estrapolato dal suo contesto significativo e storico e appare come una specie di magia. Una promessa di cura appare a portata di mano quando ad esempio la strada da percorrere è ancora molto lunga. Tutti noi assistiamo anche ad informazioni completamente contraddittorie. Pensiamo alla discussione su Intelligenza Artificiale, mente umana e coscienza.  Persone autorevoli hanno sostenuto sui media che le macchine svilupperanno esse stesse una coscienza (è solo questione di tempo e di complessità della macchina), mentre altre persone altrettanto autorevoli  hanno sostenuto che questo non è possibile  perché un conto è  l’intelligenza algoritmica (comunque potentissima), un conto sono l’intelligenza  creativa degli esseri biologici e l’esperienza soggettiva della coscienza. 

La divulgazione deve essere di qualità. Si tratta di raccontare le Neuroscienze come un lavoro in progress, dedito a comprendere il funzionamento delle strutture neurali e anche a cercare di correggerne i disordini prodotti dalle malattie. Un lavoro fondato sulle evidenze scientifiche ma inevitabilmente in contatto con ciò che non è ancora pienamente conosciuto, con i comportamenti degli esseri umani e delle società. Come si legano tra loro la biologia dei neuroni, i comportamenti individuali e le culture umane?

Sulla base di esperienze anche decennali, come quella del Caffè Scienza Firenze Prato (che ha dedicato decine di conferenze video-registrate alle Neuroscienze), l’idea su cui si fonda Un Pomeriggio con le Neuroscienze è che la divulgazione scientifica, e quella delle Neuroscienze in particolare, siano a tutti gli effetti iniziative di promozione del benessere e della consapevolezza sociale. 

I canali digitali sono indispensabili per la divulgazione scientifica. Sono essenziali per ampliare i contatti, per raggiungere e informare un pubblico più vasto e sopratutto per tenere memoria delle iniziative. Tuttavia, la divulgazione trae vantaggio dal contatto diretto tra i protagonisti della conoscenza e della ricerca, la curiosità e la libertà di opinione del pubblico. Promuovere la curiosità in un contesto di libertà di opinione è il target della divulgazione scientifica all’origine anche della nostra iniziativa.  

I temi trattati nel programma del Pomeriggio, divisi in tre sezioni e hanno cercato di rispondere a diverse domande:

Come si possono divulgare la ricerca e i concetti delle neuroscienze anche ai non specialisti? Come si può osservare in diretta e in vivo un cervello che cresce e sviluppa i propri circuiti neuralI?

Le moderne tecniche di neuroimaging ci aiutano a comprendere la coscienza e i suoi rapporti con l’inconscio?

Come si genera l’ infiammazione nel sistema nervoso?

Che rapporto ha l’invecchiamento con l’ infiammazione e la degenerazione delle cellule nervose?

L’ Europa si sta occupando di ricerca per la terapia dell’Alzheimer e delle altre malattie neurodegenerative?

Si può prevenire o contenere la malattia di Alzheimer?

Frontiere delle Neuroscienze

La prima sezione del pomeriggio è stata dedicata alle Frontiere delle Neuroscienze. I protagonisti stessi delle ricerche le hanno raccontate al pubblico.  Una cosa che si è scoperto con piacere è stata che le ricerche di avanguardia avvengono non solo in America o in Cina, ma anche a pochi chilometri dalla splendida biblioteca dove ci si è svolta la nostra iniziativa.

Francesco Vanzi, Professore Associato di Anatomia, Biologia cellulare e biologia dello sviluppo comparate, Dipartimento di Biologia Università di Firenze, ha raccontato, nella sua presentazione Morfogenesi del cervello in Zebrafish: dallo zigote ai cluster di attività neuronale coordinata, le ricerche in corso su come si trasforma e costruisce i propri circuiti il cervello embrionale. Il sottotitolo specifica il focus della sua presentazione: A caccia dei primi segnali dai neuroni durante lo sviluppo embrionale. Il protagonista di queste ricerche è un piccolo pesce dal soprannome di Zebrafish.  

Vanzi è sempre stato molto interessato al rapporto tra forma e funzione in biologia. La forma del nostro corpo supporta funzioni vitali come il movimento ed il respiro, ma anche funzioni relazionali, come l’attrazione per le facce e le competenze nel riconoscere l’espressione mimica, funzioni a cui l’ evoluzione naturale ha dedicato e parti specifiche del corpo e del sistema nervoso.  

La forma del sistema nervoso è dinamica e cambia continuamente in particolare nelle fasi precocissime dello sviluppo, condizionando così quella che sarà la vita adulta di un individuo.

Vanzi è riuscito a studiare queste trasformazioni precocissime del cervello  in vivo, nel modello sperimentale basato sull’osservazione delle larve di Zebrafish, un piccolo pesce allevato negli acquari. 

La grande differenza di complessità tra questo modello e il cervello umano (100.000 neuroni nelle larve contro gli 85 miliardi di neuroni del cervello umano) rispecchia la grande distanza dell’origine evolutiva dei due sistemi nervosi. Tuttavia l’antica origine comune si manifesta nella omologia morfologica tra i due cervelli, quello delle larve e quello umano. Entrambi mostrano la stessa segmentazione (bulbo olfattivo, telencefalo, tronco, diencefalo, cervelletto) e analoghi sistemi recettoriali.  

Il piccolo pesce viene allevato in acquari e il suo comportamento osservato. Una cosa impressionante che ci è stata mostrata in un filmato è che i pesci di due acquari affiancati e divisi solo da una lastra di vetro trasparente sono fortemente attratti gli uni verso gli altri e passano diverso tempo a cercare di interagire affollandosi ai due lati della parete in comune. Viceversa  alcuni pesci mutati (a cui è stato cambiato un gene che è implicato nella patogenesi dell’autismo) sono del tutto areattivi nei confronti dei loro simili che stanno dall’altra parte della parete trasparente.

Lo Zebrafish è trasparente e quindi è possibile filmare i cambiamenti morfologici del suo cervello, all’interno della scatola cranica. Vanzi ci ha fatto vedere dei filmati eccezionali di come si modifica nel giro di ore il cervello delle larve di Zebrafish. 

Gli embrioni inoltre sono stati ingegnerizzati per esprimere una proteina fluorescente verde. L’intensità della fluorescenza è dipendente dalla concentrazione di calcio, ossia è molto più intensa se nella cellula cresce la concentrazione del calcio. La concentrazione intra-cellulare del calcio è funzione dell’ attività bioelettrica della cellula nervosa e il suo incremento durante  l’ attività del neurone permane per diverse centinaia di millisecondi.  In breve, se il neurone è attivo, il calcio intra-cellulare cresce e la fluorescenza verde della larva si intensifica. 

In un embrione si può seguire e filmare minuto per minuto la variazione della   fluorescenza che è indicativa dell’attività di ogni singolo neurone. Con tecniche di microscopia avanzata “a due fotoni” si possono ricostruire sezioni assiali o sagittali del sistema nervoso della larva. In questa maniera si è potuto osservare che con il passare delle ore appare sempre più la tendenza a sincronizzarsi di neuroni distanti tra loro. In pratica stiamo assistendo al costruirsi della connettività neurale (sincronizzazione sinaptica e formazione dei circuiti neurali). 

Si può osservare come la connettività di questi circuiti vada intensificandosi durante il rapido sviluppo embrionale, seguendo degli schemi che alla base sono predeterminati e identici in tutti i pesci, ma in buona parte possono manifestare anche delle significative varianti individuali. Insomma, anche i minuscoli embrioni di Zebrafish mostrano una componente individuale che modifica parzialmente la traiettoria genetica specie-specifica durante lo sviluppo del loro sistema nervoso.

La presentazione di Vanzi è stata molto apprezzata per la evidenza dei filmati, la chiarezza del progetto e degli intenti di ricerca e la chiarezza di esposizione. 

Nella discussione vivace che l’ha seguita, è stata posta a Vanzi una domanda piuttosto importante, relativa al fatto sorprendente che anche in cervelli così piccoli e considerati semplici e primitivi ci siano differenze significative, a livello individuale, nello sviluppo dei circuiti neurali.

La domanda tradisce  un’ opinione diffusa che gli animali più semplici siano costruiti in serie dall’ evoluzione, attraverso un piano  genetico/epigenetico di sviluppo (il piano predisposto dall’ evoluzione che fa sì che l’embrione di zebrafish diventi un adulto di zebrafish) del tutto predeterminato e meccanicistico. 

In realtà il lavoro di Vanzi dimostra chiaramente che ci sono varianti individuali nella costruzione dei circuiti neurali. Il piano genetico/epigenetico definisce una traiettoria che deve portare ad un adulto morfologicamente riconoscibile come una specie e in grado di sopravvivere. Niente di più. Non stabilisce quindi dove avvenga ogni singola sinapsi. 


Per i sistemi biologici l’ imprevisto può essere una opportunità.  Le Neuroscienze negli ultimi decenni hanno fatto molti progressi nella comprensione dei fenomeni che ci ha mostrato Vanzi. Il rapporto tra “caso” (imprevisto) e necessità (predeterminata) nello sviluppo si definisce attraverso processi che cominciano ad essere conosciuti e che qui possono solo essere accennati.  Possiamo dire in estrema sintesi che lo sviluppo del sistema nervoso di un essere vivente avviene lungo tre direttrici, che possono avere importanza diversa nelle varie specie. 

La prima direttrice genetico-epigenetica è predisposta dall’evoluzione e contiene il modello morfologico dell’individiuo che si andrà a formare. Questa direttrice ha l’ obiettivo predeterminato di formare un organismo con un certo pattern specie-specifico (riconoscibile) e in grado di sopravvivere, ma manifesta anche un certo grado di tolleranza (o ridondanza) nel risultato finale.

La seconda direttrice è individuale e prende corpo sfruttando la tolleranza (o ridondanza) della precedente direttrice. Un esempio tipico si ha nella corticogenesi. Quando da un neurone A parte un assone A la destinazione finale dell’ assone A è determinata dalla direttrice genetico-epoigenetica ma non totalmente. Ad esempio, l’assone è destinato a raggiungere un certo strato corticale, un certo tipo di neurone B che si trova in quello strato corticale, persino un segmento specifico del neurone B. Non è tuttavia stabilito esattamente se e dove l’assone A svilupperà la sinapsi sul neurone B. Si consideri che l’ assone A si troverà in forte competizione con altri assoni A1 o A2 ad esempio che vogliono stabilire sinapsi più o meno nello stesso posto. La competizione tra assoni fa parte del processo di sviluppo dei circuiti! Come avviene questa competizione? Sappiamo oggi con certezza (in particolare dagli studi sulla re-innervazione muscolare da parte del nervo periferico lesionato) che appena un assone contatta la membrana di un secondo neurone inizia immediatamente uno scambio di segnali chimici ed elettrici tra i due neuroni, che porta attraverso un processo ben conosciuto alla formazione della sinapsi, inizialmente immatura e poi matura. Fin dal primo contatto il circuito diventa funzionante e l’attività che inizia già nelle sinapsi immature sarà il principale determinante della maturazione o della regressione di ogni singola sinapsi. Questa direttrice  di sviluppo è quella che possiamo chiamare di auto-costruzione dei circuiti attraverso la loro attività spontanea (cioè non condizionata dal contesto esterno né da altri significati che non siano la stabilizzazione e maturazione stessa del circuito). Pur essendo in buona parte spinta dalla direttrice genetico/epigenetica, la direttrice individuale introduce un fattore di variabilità individuale nella sinaptogenesi  del sistema.

La terza direttrice è quella determinata dall’esposizione all’ ambiente esterno. Un esempio classico è l’acquisizione della postura eretta e del cammino da parte del bambino durante il primo anno di vita. È l’esposizione alla gravità stessa che raffina e ulteriormente modula i circuiti nervosi fino a renderli capaci di affrontare e manipolare la stessa esposizione del corpo alla gravità. Questo processo in astratto potrebbe avvenire anche completamente al di fuori dell’esperienza cosciente; è il semplice svilupparsi di un automatismo motorio/comportamentale. 

La quarta direttrice è quella determinata dall’esperienza (cosciente) nel mondo esterno, come ad esempio almeno in parte è l’apprendimento della lingua materna, e in generale tutto ciò che ha che fare con le relazioni personali e la storia delle culture umane. In questo caso, l’esperienza stessa deve avere un ruolo nella costruzione dei circuiti e non solo viceversa! Questi aspetti sono però ancora da considerare terreno di frontiera per le Neuroscienze

Tutto il complesso processo di costruzione dell’organismo nel suo mondo (individuo) che ho cercato di riassumere qui prendendo spunto dall’ interessante dibattito nato nel corso della discussione sulla presentazione di Vanzi è stato prefigurato e indicato con il termine Autopoiesi  e inquadrato nella Teoria dei sistemi complessi da H Maturana e F Varela nel loro libro L’albero ella Conoscenza (Garzanti 1987). 

La prima prova sperimentale che all’ interno della direttrice genetico/epigenetica si apre l’imprevisto è, a mia conoscenza, un lavoro del 1973, riportato in dettaglio in JP Changeaux L’uomo neuronale (Feltrinelli 1983). Di nuovo il protagonista è un piccolo crostaceo che si può osservare negli acquari, la dafnia. Le femmine di dafnia si riproducono per partenogenesi e quindi la discendenza  è fatta da individui geneticamente identici. I ricercatori hanno sezionato strutture nervose della dafnia ricostruendone la morfologia e la connettività neurone per neurone. Così hanno visto che alcuni parametri erano invarianti in tutti gli individui geneticamente identici. Questo valeva per il numero dei neuroni  dell’ occhio ad esempio (sempre 176!) e anche per le connessioni tra i neuroni dell’ occhio e i loro target nel ganglio ottico. Di fatto ogni neurone dei 176 dell’ occhio si connetteva ad uno specifico neurone dei 110 del ganglio ottico. Ma la invarianza finiva qui. Variabili da individuo a individuo erano invece sia il numero di sinapsi che ogni neurone dell’ occhio faceva con il corrispondente del ganglio ottico sia la arborizzazione terminale dell’ assone.

Angelo Gemignani, Ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica Università di Pisa, nella sua relazione Conscio e inconscio nell’era del connettoma ha raccontato al pubblico i suoi studi sulla coscienza e sulla possibilità di modificare la coscienza attraverso il corpo, ad esempio attraverso la meditazione o il tipo di respiro, toracico o nasale. 

In buona parte della relazione ha riassunto i punti salienti del cosi detto problema difficile (D Chalmers), cioè quello di spiegare la coscienza nei termini della scienza oggettiva, quella fisica delle leggi del mondo fisico. Gemignani ha citato a questo proposito anche G Tononi, il neuro-scienziato che ha proposto una teoria della coscienza in parte riconducibile a leggi fisiche, che è nota come la Teoria dell’ Informazione Integrata (IIT).

Le Neuroscienze secondo Gemignani possono solo limitarsi a descrivere i correlati neurobiologici della coscienza. Il correlato neurale della coscienza non si identifica con il fenomeno soggettivo, cioè con la esperienza  cosciente. Tuttavia il correlato neurale ha potere causale perché modificazioni o manipolazioni del correlato  modificano in qualche maniera la qualità o l’esistenza stessa dell’ esperienza cosciente.

Un esempio di come i correlati neurali modifichino l’ esperienza soggettiva della coscienza si ha ogni giorno durante il ciclo sonno/veglia.  I circuiti neurali integrati si dissolvono durante il sonno profondo, così che la corteccia cerebrale funziona come se fosse fatta da isole neuronali disconnesse tra loro e dal resto dell’ encefalo. I canali del potassio si aprono e generano le onde negative iperpolarizzanti che compaiono durante il sonno profondo, così dissolvendo la coscienza e riducendo l’entropia e il metabolismo di tutto il sistema.  Tali onde negative sono apprezzabili nel contesto del vistoso rallentamento ad ampio voltaggio dell’attività bioelettrica corticale che si può osservare con l’EEG.  

Durante il sonno profondo il cervello è impegnato nella rigenerazione trofica e metabolica dei neuroni e nel reset delle sinapsi che sono state prepotentemente attivate durante la veglia. In questo processo di riordino e ripristino il cervello lavora offline per stabilizzare le attivazioni più significative che si sono create durante la veglia.

Il relatore ha insistito sulla possibilità  di modificare l’integrazione corticale  (e rallentare l’EEG) attraverso varie modalità diverse da sonno tra cui la meditazione orientale e il respiro nasale in particolare. L’apporto di stimolazioni ritmiche non odorose ai nervuzzi olfattivi del naso viene immediatamente trasmesso ai neuroni del bulbo olfattivo e di qui al resto della corteccia con un gradiente fronto-occipitale. A seguito di queste operazioni (e per esteso attraverso la respirazione nasale) si può sperimentare una stato non ordinario di coscienza, cioè sempre di veglia ma probabilmente meno integrato di quello ordinario e più vicino a quello capace di restauro metabolico e reset cognitivo che sperimentiamo durante il sonno profondo.

Coscienza, dissolvenze e modulazioni. Credo che sia merito di Gemignani parlare di variazioni fisiologiche della coscienza ad esempio nel corso del normale ciclo sonno veglia di ogni giorno, o comunque modificate da condizioni corporee come la meditazione orientale e il respiro nasale. Sta di fatto che molti filosofi della coscienza ignorano queste variazioni e sembrano considerare la coscienza come qualcosa che è sempre integra ed efficiente come nella condizione di veglia (e in buona salute!). Inoltre questi stessi filosofi tendono a scindere la riflessione sulla coscienza da quella sulle sue basi neurali, invece chiarissime nella relazione di Gemignani 

La presentazione di Gemignani fa sorgere anche un’ altra domanda. I correlati neurali della coscienza sono strutture e funzioni biologiche del nostro corpo che modulano l’esperienza cosciente.  Ci si potrebbe chiedere se possa realizzarsi anche il processo inverso, ovverosia se l’ esperienza cosciente abbia potere causale sui correlati neurali. Con questa domanda entriamo in un campo di frontiera delle Neuroscienze. Se una persona che ha avuto un ictus pensa di alzare la sua mano paralizzata e una macchina collegata all’EEG di quella persona solleva la sua mano possiamo chiedersi se è davvero il pensiero, l’ esperienza cosciente dell’ uomo a agire sul mondo fisico oppure se l’ esperienza cosciente (il desiderio di sollevare la mano) è solo il riflesso o il racconto dei processi mentali inconsci  del paziente , che modificano i segnali EEG, che a loro volta attivano la macchina.  Per quanto possa sembrare stravagante questa domanda, essa non ha a oggi una risposta definitiva su cui ci sia un consenso generale e prove definitive. 

Neuroinfiammazione e invecchiamento 

Lorenzo Emmi, Immunologo clinico, già Direttore del Centro di Riferimento Malattie Autoimmuni Sistemiche, AOU Careggi Firenze,  ha parlato di  Sistema Immunitario e Sistema nervoso nella sua relazione Le basi molecolari e cellulari della neuro-infiammazione.  In passato si riteneva che il cervello fosse un “santuario” ovverosia un organo immunologicamente isolato dal resto del corpo e perciò impermeabile alle cellule e ai meccanismi del sistema immunitario.  


Oggi sappiamo che le cose non stanno così. La Barriera Emato-Encefalica (BEE)  può essere superata dalla cellule immunitarie, che quindi possono entrare dal sangue periferico all’ interno del sistema nervoso. Sappiamo anche che cellule con competenze immunologiche sono già presenti di per sé nel sistema nervoso come la microglia che è composta da vere e proprie cellule con proprietà macrofagiche, cioè con competenza a intervenire nei processi immunologici. Cellule immuno-competenti inoltre sono abbondanti negli spazi meningei. Processi infiammatori quindi possono manifestarsi anche all’interno del sistema nervoso centrale, sulla base dell’invecchiamento o della neuro-degenerazione e anche di molti altri fattori di rischio. Si parla così di neuro-infiammazione acuta o cronica, cosa che accade in molte affezioni del sistema nervosa centrale su base infettiva o autoimmune, come ad esempio nella sclerosi multipla o nelle altre malattie demielinizzanti. Emmi ha messo l’accento su un particolare tipo di infiammazione, detta infiammazione di basso grado, che può diminuire la funzionalità e la vitalità dei neuroni e quindi compartecipare a indurre anche patologie neuro-degenerative severe come l’ Alzheimer o il Parkinson, oltre che encefalopatie vascolari, visto che un’infiammazione di basso grado è ritenuta oggi tra i meccanismi patogenetici dell’arteriosclerosi stessa. 

Emmi ha anche sottolineato che tutte le cellule che si trovano nel sistema nervoso, neuronali o gliali, partecipano al processo delle neuro-infiammazione di basso grado. Tra le varie cellule han un ruolo di primo piano la microglia. Ci sono stretti rapporti e collaborazione funzionale tra glia (astrociti, microglia) e neuroni.  Gli astrociti e la microglia possono interferire nei processi sinaptici, ad esempio con la rimozione delle stesse sinapsi quando danneggiate, oppure stabilizzandole e proteggendole in altre condizion. Di fatto la glia contribuisce anche al rimaneggiamento dei circuiti nei normali processi di apprendimento, oltre che alla massiva potatura sinaptica che si ha nei primi anni di vita del bambino.  Tutto questo è correlato al fatto che le cellule della microglia possono essere in vari stati, ad es quiescenti, oppure di supporto positivo del lavoro dei neuroni, oppure ancora in uno stato aggressivo dannoso per i neuroni, che coincide appunto con l’infiammazione di basso grado. 

Tra i fattori che contribuiscono al danno neuronale indotto dalla neuro-infiammazione di basso grado, oltre che la riduzione del flusso circolatorio, vanno considerati anche l’accumulo di cataboliti che si producono durante l’intensa attività neuronale della veglia, l’arrivo di sostanze tossiche da varie parti dell’ organismo e in particolare dall’intestino, specie in caso di disbiosi, e l’accumulo di componenti proteiche insolute, difficili da eliminare attraverso il sistema “fognario” dell’ encefalo, vale a dire il sistema glinfatico. Emmi sottolinea il fatto che il sistema di smaltimento dei rifiuti tossici o sistema glinfatico è efficiente sopratutto nel sonno profondo, e di conseguenza la perdita cronica di sonno profondo va considerata un fattore in grado di potenziare sia la neuro-infiammazione di basso grado che la neuro-degenerazione.

Claudio Franceschi, Professore Emerito Università di Bologna, Editor-in Chief di Ageing Research Reviews, con la sua relazione Inflammaging e neuroaging ha molto impressionato l’uditorio parlando di orologi. Quali orologi?. Gli orologi biologici che determinano l’invecchiamento delle persone. E’ certo che c’è una differenza tra età biologica e età cronologica. Questo è stato ben documentato nei centenari che hanno un’età biologica minore di quella anagrafica. Franceschi ha mostrato che sono noti molti orologi biologici. Alcuni si rifanno alla metilazione di un certo numero di loci del genoma. Il grado di metilazione di questi loci correla con l’età biologica delle persone  Altri orologi si sono scoperti studiando marker ematici (proteine). Gli studi di proteomica hanno portato ha scoprire dei marker che hanno funzione di orologio biologico in quanto misurano l’età biologica e quindi possono rivelare unì età biologica sovrapponibile o diversa (in più o in meno) rispetto a quella anagrafica. Qualunque marker si prenda in considerazione, i centenari hanno una età biologica più giovane di quella  anagrafica. 

Dalla presentazione di Franceschi si è imparato che ci sono anche orologi esclusivamente cognitivi. Studiando con test cognitivi le performance individuali possono di nuovo distribuirsi in maniera coerente o meno (in meglio e in peggio) rispetto all’ età anagrafica. Anche gli orologi cognitivi confermano che gli ultra-centenari sono più giovani rispetto alla loro età anagrafica. 

Franceschi ha studiato anche pazienti affetti da disordini comportamentali durante il sonno REM (iRDS) da causa non nota. In pratica si tratta di soggetti che si agitano molto durante i loro sogni e le fanno ripetutamente quasi tutte le notti. Nel 50% dei casi questi soggetti sviluppano la Malattia di Parkinson entro 10 anni dall’insorgenza dei disturbi stessi. Anche i soggetti con iRDS hanno una un’ età biologica maggiore della loro età anagrafica. 

È interessante  notare che usando metodiche di Intelligenza Artificiale si riesce a profilare ogni soggetto studiato in base al suo orologio biologico e quindi a definire il rapporto tra età biologica e età anagrafica per ogni singolo individuo. Anzi, si può entrare ancora di più nel dettaglio e definire il rapporto tra età biologica e età anagrafica di ogni individuo, in relazione a ciascun tipo di test cognitivo isolato.  

Franceschi ha partecipato a studi recentissimi che hanno documentato che si può misurare con marker biochimici l’età biologica dei singoli organi di un individuo, così potendo prevedere il rischio di ammalarsi non solo del singolo individuo, ma anche del singolo organo.  

Neuro-degenerazione. Prospettive terapeutiche 

Domenico E. Pellegrini-Giampietro, Ordinario di Farmacologia presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Firenze,  ha presentato una relazione dal titolo Strategie terapeutiche innovative in malattie neurodegenerative: update dal progetto MNESYS (Partenariato esteso 12 PNRR). Ha raccontato lo svolgersi di un progetto sostenuto da finanziamenti europei, Mnesys, che si basa sulla collaborazione di diversi gruppi italiani interessati alla comprensione dei meccanismi e al trattamento della neuro-degenerazione. Ogni gruppo cerca di raggiungere dei risultati in un campo specifico. Il gruppo fiorentino, coordinato dal professore, ha come obiettivo principale lo studio del danno degenerativo-anossico, sia sul versante della patogenesi che sul versante dei fattori protettivi. Il modello sperimentale è in vivo (induzione del danno nei topini attraverso la legatura delle arterie cerebrali) o in vitro (fettine di ippocampo esposte a bassi flussi di ossigeno di varia durata, e conseguente studio sia della progressione del danno anche nelle ore successive all’insulto ipossico che di eventuali fattori protettivi). Sono in corso studi che cercano di mitigare gli effetti dell’esposizione a bassi flussi di ossigeno con farmaci aggiunti al modello sperimentale come il cannabidiolo, derivato della cannabis di cui è noto l’effetto neuro-protettivo sull’anossia (diversamente dal tetraidrocannabinolo, il principio psicoattivo della cannabis, che invece ha un effetto peggiorativo sul danno ipossico).  Il faramco può essere aggiunto al modello sperimentale (cioè alla fettina di ippocampo) in vari tempi, sia durante che dopo l’ insulto anossico, per riprodurre la condizione usuale che si verifica in clinica in cui la terapia inizia al momento o dopo l’evento patologico.     

I vari gruppi di ricerca che concorrono al progetto Mnesys si occupano anche di altri aspetti importanti nella pratica clinica, come il delivery, cioè di come portare i farmaci dentro il sistema nervoso e in particolare nel luogo del danno con nanoparticelle, oppure la riabilitazione funzionale, cioè di come sviluppare anche con l’ aiuto dell’Intelligenza Artificiale dispositivi per il recupero funzionale dalla disabilità nelle persone che hanno avuto lesioni neurologiche acute a tipo stroke.

Laura Bracco, Neurologa, già Responsabile del Centro di Riferimento della Regione Toscana per lo Studio del Declino Cognitivo nell’Adulto, con la sua presentazione Possibilità terapeutiche nelle malattie neuro-degenerative ha riportato l’ attenzione del pubblico sulle questioni della pratica clinica.   

Per prima cosa ha messo l’ accento sui tanti problemi e i tanti bisogni che ancora non trovano risposta in questo campo. Si è soffermata sopratutto sulla M di Alheimer e ha ricordato i momenti patogenetici essenziali di questa malattia, che sono l’aggregazione e la precipitazione all’interno del sistema nervoso della beta amiloide anomala (una proteina che tende a diventare insolubile, in particolare se ci sono anomalie, anche su base genetica, della sua conformazione). Gli aggregati di beta amiloide insoluta innescano un secondo step, necessario perché si manifesti la malattia, che è  la disorganizzazione e infine la dissoluzione dei microtubuli (proteina tau). I microtubuli partecipano a formare la struttura del citoplasma e dal corpo cellulare proseguono negli assoni dei neuroni. La loro fosforilazione eccessiva ed altri meccanismi contribuiscono alla comparsa dei così detti ammassi neurofibrillari, cioè di ciò che resta dei microtubuli disorganizzati  e accartocciati. Questi processi disorganizzano e vanificano di fatto la circuiteria neuronale, dando origine al quadro clinico della demenza. 

Bracco ha sottolineato come processi analoghi (proteine misfolded o mal ripiegate, cioè con una conformazione spaziale instabile o anomala)  siano all’ origine non solo dell’Alzheimer ma anche di numerose altre patologie neuro-degenerative. Questi meccanismi sono all’ origine infatti anche del M.di Parkinson (si accumula alfa-sinucleina) e della Corea di Huntington (si accumula huntingtina). 

Un altro aspetto molto interessante è che l’accumulo delle proteine anomali comincia molti anni (dieci o più) prima che compaiano i sintomi clinici della demenza.  Si tratta di  un processo che passa attraverso diversi stadi. Inizialmente si accumula il materiale anomalo (rilevabile con Tomografia ad Emissione di Positroni o PET con traccianti specifici), senza che compaiano né sintomi di malattia (rilevabili con l’esame clinico comportamentale integrato eventualmente da test cognitivi) né modificazioni anatomiche del cervello (rilevabili con la TAC o RM dell’encefalo).  

A complicare le cose c’è il fatto che i sintomi cognitivi esordiscono quasi sempre con un deficit di memoria di tipo autobiografico, cosa che ovvimante capita a molte persone anche in conseguenza del semplice processo di invecchiamento. Per cui in una certa fase  i pazienti con deficit di memoria  correlato all’invecchiamento e i pazienti che svilupperanno una demenza di Alzheimer sono difficili da distinguere. Tutto questo pone il problema di quando sia opportuno fare una diagnosi definita di Alzheimer. Si deve cercare di anticipare i tempi della diagnosi, il che può comportare di sottoporre ad esami intensivi un numero enorme di pazienti, la maggioranza dei quali non svilupperà mai l’Alzheimer? O si deve aspettare che compaiano sintomi clinici inequivocabili, il che però potrebbe avvenire troppo tardi? Questi interrogativi sono tuttora aperti. La risposta potrebbe variare qualora avessimo dei farmaci di comprovata efficacia e scarsa tossicità da usare fin dalle prima fasi, pre-cliniche, della malattia.  

I tentativi terapeutici della M. di Alzheimer si sono basati finora sul sostegno dei neurotrasmettitori che hanno un ruolo nell’ attivazione corticale, come l’ acetilcolina, oppure nel contrasto alla over-stimulation da parte delle sinapsi corticali glutamatergiche, over-stimulation che si ritiene contribuisca alla degenerazione dei neuroni corticali in questi pazienti.   


Da anni si cerca di produrre in laboratorio anticorpi monoclonali anti-amiloide nell’ipotesi che questi possano ridurre la formazione degli  aggregati di amiloide insoluta, primum movens nel processo patogenetico dell’Alzheimer.  

Tra gli anticorpi monoclonali sperimentati ne è stato approvato  uno di recente per il trattamento dell’Alzheimer, prima in USA e recentemente anche in Europa. Si tratta del Lecanemab. Il farmaco ha provocato un rallentamento della malattia in pazienti con forme cliniche lievi o moderate dopo un trattamento di 18 mesi. E’ somministrato con infusioni endovenose e non è esente da rischi, in particolare  per la possibilità di scatenare encefalopatie piuttosto serie anche se spesso subcliniche e reversibili nel giro di qualche settimana, note con l’ acronimo di ARIA-E o ARIA-H ( dall’inglese Amyloid-Related Imaging Abnormalities-Edema o Haemorrages). Gli eventi ARIA-E si hanno nel 15% e gli eventi ARIA-H nel 7% dei pazienti trattati. Quelli francamente sintomatici interessano il 3% dei pazienti trattati.

La patogenesi di questi fenomeni non è ben conosciuta. Una possibilità è che si tratti di stravasi di liquido (edema) o sangue (emorragie) dai piccoli vasi cerebrali conseguenti a danno della parete vascolare da parte del farmaco. Per questi motivi, il trattamento con lecanemab è controindicato in soggetti con facilità ai fenomeni emorragici. Per lo stesso motivo, le agenzie regolatorie hanno inoltre limitato l’indicazione all’uso di lecanemab ai soggetti con una o nessuna copia del gene ApoE4, visto che questi soggetti presentano di per sé un minor rischio emorragico.

Il lecanemab si lega alla beta amiloide aggregata (protofibrille), impedendone la precipitazione. Non si lega alla beta amiloide in soluzione, che non è per sé patologica. Legandosi alla proteina anomala, ne favorisce l’ eliminazione da parte del sistema immunologico attivato (microglia).

C’è un altro aspetto da sottolineare in relazione al trattamento con lecanemab della M di Alzheimer. Quest’ultima è dovuta alla sequenza precipitazione di beta amiloide insolubile —> danno irreversibile dei microtubuli (taupatia). Per l’ indicazione al trattamento con lecanemab bisogna documentare nel liquor del paziente la presenza di un eccesso di proteina tau rispetto ad un calo della beta amiloide (perchè precipitata nelle placche senili).  

E’ importante sapere che ci sono molte condizioni in cui al primo evento (precipitazione degli aggregati di beta amiloide) non segue la disorganizzazione microtubulare, e di conseguenza non segue l’ accumulo di proteina tau. Queste condizioni vanno da vere e proprie patologie di altra natura, come ad esempio la angiopatia amiloide cerebrale, a condizioni meno chiare dal punto di vista patologico come gli accumuli di amiloide dell’ età avanzata, asintomatici.

La proteina tau è una proteina strutturale fondamentale per la salute e il funzionamento dei neuroni. È coinvolta principalmente nella stabilizzazione dei microtubuli, che sono componenti essenziali dello scheletro cellulare e svolgono un ruolo cruciale nel trasporto di nutrienti, molecole e segnali lungo gli assoni. La poteina tau può essere modulata da processi biochimici (es. fosforilazione), che permettono adattamenti dinamici del citoscheletro neuronale in risposta a segnali cellulari. Inoltre tau garantisce il movimento corretto di organelli, proteine e neurotrasmettitori lungo gli assoni.

Nelle malattie neurodegenerative, come la Malattia di Alzheimer, la proteina tau subisce modificazioni patologiche, tra cui l’iperfosforilazione, che portano all’instabilità dei microtubuli e al loro disgregarsi. La tau iperfosforilata forma ammassi neurofibrillari all’interno dei neuroni; questi aggregati sono tossici e interferiscono con la funzione e la vitalità del neurone.

La tau-patia è una caratteristica distintiva di molte malattie neurologiche, collettivamente note come taupatie, tra cui, oltre la M di Alzheimer, troviamo  la Degenerazione lobare frontotemporale (FTLD), la Paralisi sopranucleare progressiva (PSP) e la Degenerazione corticobasale (CBD).

Solo negli ultimi anni la ricerca ha definito l’uso di marcatori ematici della malattia di Alzheimer, che potrebbero semplificare quindi sia la diagnosi precoce che il monitoraggio delle terapie. Tra questi marcatori ematici abbiamo il rapporto tra beta amiloide 42 e beta amiloide 40  (la riduzione di questo rapporto correla con la formazione di placche senili nel cervello), il rapporto tra tau totale e tau fosforilata (l’aumento della fosforilata correla con la formazione di ammassi neurofibrillari nel sistema nervoso), l’ aumento dei Neurofilamenti a catena leggera (NfL), che riflette il danno neuronale e l’atrofia cerebrale, risultando elevato in diverse condizioni neuro-degenerative, inclusa l’AD.  Studi recenti molto significativi al riguardo sono Diagnosis of Alzheimer’s disease using plasma biomarkers adjusted to clinical probability. Nat Aging Nov. 2024, Therriault J, Janelidze S,  Rosa-Neto P. et al. e  Multi-analyte proteomic analysis identifies blood-based neuroinflammation, cerebrovascular and synaptic biomarkers in preclinical Alzheimer’s disease,  Mol Neurodegener. 2024 Oct,  Zeng X, Lafferty TK, Karikari TK e al. Esiste anche una prima proposta di linee guida europee per la diagnosi e il percorso diagnostico nelle malattia neurodegenerative (European intersocietal recommendations for the biomarker-based diagnosis of neurocognitive disorders, Lancet Neurol 2024 mar, Giovanni B Frisoni, Cristina Festari, Flavio Nobili et al.)

A cura di

Walter Borsini 16 dicembre 2024